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NARRATIVA ADULTI - Opere premiate
Concorso Letterario
"Versi & Prosa - Orizzonte Cultura"
I Edizione 2007
Cat. NARRATIVA ADULTI
1° Classificato - DE CASTIGLIONE ANNA - Milano - "15 anni e 1 segreto"
15 ANNI E 1 SEGRETO
Caro Diario,
oggi è il mio quindicesimo compleanno e sono molto felice di averti ricevuto come regalo da parte della mamma; così, ho finalmente qualcuno con cui confidarmi. Me lo chiedo spesso: ha senso custodire un segreto, se non si ha qualcuno a cui rivelarlo?
Assolutamente no. Cioè, sì. Alle volte.
Prima di passare alla parte più “scottante”, è necessario, però, che mi presenti.
Come voi diari saprete, il mondo è pieno di persone strane. Bene: io, certamente rientro in questa categoria. E non me ne dispiace affatto.
Per me, essere diversa, è come vivere in un grande spazio e respirare aria pura.
Ho due occhi verdi che, secondo la mamma, hanno il colore delle alghe e una luce che promette felicità; purtroppo, però, un occhio è più alto dell’altro e, perciò, finisce sempre che mando in confusione chi mi guarda.
La mia vera preoccupazione, invece, sono i denti: me ne mancano tre, proprio davanti; così, in attesa di rifarli nuovi, a chi mi guarda quando sorrido, sembra di vedere un pianoforte; la mia mamma, però, dice che quel pianoforte è capace di suonare le più belle sinfonie di tutti i tempi.
In questi 15 anni ho combattuto molte battaglie; molte le ho vinte, moltissime le ho perse. Quasi sempre sono stata io ad attaccare e sempre con il medesimo obbiettivo: fare sì che qualcuno si accorgesse di me.
A questo scopo dico sempre le frase sbagliata al momento sbagliato: è la mia tattica personale per riuscire a prendere le persone per il verso giusto.
Ho commesso un numero incalcolabile di errori, ma non posso dire di pentirmene; perché, in ogni singolo caso, non ho avuto alternative. Dio sa che cosa intendo.
Se non mi comportassi così, la gente continuerebbe a guardarmi come se non mi vedesse; e tutti, alla prima occasione, sposterebbero la loro attenzione altrove, lasciando scivolare via la mia immagine dai loro occhi, senza permetterle di lasciare in loro alcuna traccia, come un uovo fritto dal tegamino…
In verità, l’unica persona che si preoccupa di me è, (oltre, ovviamente, alla mamma) la mia psico-pedagogista: la dottoressa Raddi.
La Dottoressa Raddi ha una stravagante acconciatura a torre che, secondo il suo intento, dovrebbe distogliere l’attenzione dalla sua allarmante magrezza: il suo corpo, infatti, è così scavato che sembra dimagrire proprio mentre la guardo e il suo viso è così stretto che sembrerebbe potersi permettersi un solo occhio. I suoi occhi, al contrario, sono due; ma sono velati, come coperti di polvere, e hanno la stessa espressione che io riservo al riso bollito in ospedale.
Probabilmente la odio…eppure, sento di doverle qualcosa: grazie a lei, ho scoperto che è abbastanza piacevole odiare qualcuno, di tanto in tanto…
Resta il fatto che la dottoressa Raddi è una stupida fredda bastarda calcolatrice… Ed è così alta che tutti sono costretti a guardarla in obliquo, sempre dal basso verso l’alto, mai in orizzontale. Immagino che sia così che Dio ci vede quando gli chiediamo qualcosa.
E’ evidente che si piace un sacco. Sì, si piace un sacco, ogni giorno di più…
E anche lei, ovviamente, conferma quello che mi dicono tutti: continuo a manifestare lievi, anomali ma evidenti “ritardi”.
Cosa intendano dire, esattamente, definendo le mie manifestazioni “lente”, davvero non lo so. Ma per soffrire, non è necessario sapere…
Alle volte, fingo di non seguire quello che mi dicono; fingo, per prenderli in giro.
Il fatto che non lo capiscano mi fa piangere spesso. Ma non è grave; per me piangere è un po’ come dormire: mi aiuta a riposare.
A questo punto però, caro diario, credo di essere arrivata al momento decisivo: quello della mia rivelazione.
E’ tutta la settimana che mi sembra di vivere in un brutto, bruttissimo sogno. Ma, forse, solo ora, scrivendo queste righe, a 7 giorni da quella scoperta, (un tempo lunghissimo anche per i miei riflessi lenti), mi rendo conto che è sì bruttissimo, ma non si tratta di un sogno.
La realtà è che il mio cuore continua a perdere colpi; sembra che anche lui abbia un ritmo troppo lento; sembra proprio che non continuerà a battere per molto…
L’ho scoperto grazie alla mia capacità di percepire immediatamente le brutte notizie; oltre che alla mia capacità di origliare senza essere vista; ovviamente, è una scoperta terribile, da qualunque parte la si guardi.
E’ buio, ormai. Una specie di anticipo notturno nel cuore del pomeriggio.
Credo che mi addormenterò, tenendoti vicino a me… Questa notte voglio fare presto e battere tutti; voglio battere sul tempo il buio, la paura, il silenzio, la pietà…
Forse, domani, qualcuno ti leggerà….e, forse, qualcuno che non sono io, finalmente, costringerà la dottoressa Raddi a riconoscere la verità: per una volta, ho tagliato il traguardo prima di tutte le mie coetanee!
Caro diario, ora che ti ho detto tutto sono davvero stanca…ti prego, non abbandonarmi….
2° Classificato - BOTTONI MARCO - Castelmassa (Rovigo) - "Preghiera"
PREGHIERA
Poi, entro nel tuo studio, e tu sei lì.
Centinaia di volumi ordinati sul legno povero di una libreria snella e spartana: la ricchezza è tutta dentro i fogli.
Gli scaffali tappezzano di libri tutte e quattro le pareti, lasciando libera solo la luce della grande finestra; devo fissare lo sguardo sulla scrivania per arginare la vertigine che mi coglie mentre cerco di guardarli tutti.
La tua scrivania: la pergamena arrotolata di una poesia, su una busta l’appunto “cene con gli alunni degli anni 1953- 54-55 “ vergato di tuo pugno.
Una traduzione delle Bucoliche curata da te.
Erodoto, in greco.
Professore.
Non so nominarti altro che così, perchè questo è “Colui che sei”: Professore.
Dicono “quanto è difficile vivere insieme a una persona”; molto, molto più difficile da condividere è il morire.
Poi, tolgono la coperta, ti tolgono di dosso il lenzuolo che ti copre.
Le braccia larghe sul grande letto bianco, la testa reclinata su una spalla, hai persino le gambe scarne semiflesse e accavallate, come è nel dolore di un vero crocifisso.
Fanno per prenderti, fanno per spostarti, per portarti.
Dicono che fanno per curarti.
Tu apri gli occhi e in un sospiro fai sì che si adempiano le Scritture.
“Come volete voi”
Poi , entro nella tua stanza, e mi sforzo di trovare una verità qualsiasi che mi giustifichi, qualcosa che mi sollevi del peso del mio compito, che mi renda sopportabile il mio essere qui.
Lo cerco nei gesti del mio mestiere, dentro quel poco di sapere che mi sono trascinato dietro in tutti questi anni; cerco il perdono per i miei peccati, una assoluzione alle mie molte colpe, non ultima questa impotenza mia di fronte al tuo dolore.
Quello che non trovo scavando nella semeiotica, nella fisiopatologia, nella clinica, me lo offri in dono tu, con un filo di voce.
“Mi fido di te”.
Dicono “ è questione di vita o di morte” , e davvero non sanno quello che ti fanno.
Perdona loro, per quello che non hanno.
La “questione” è “di vita e di morte”.
Poi, salgo anch’io sull’ambulanza, spinto dalla necessità impellente di dirti qualche cosa, parole che non so, che non conosco, che sento urgenti e necessarie solo perché, forse, ultime.
Nemmeno questo ho, di te: l’intimità del silenzio da riempire soltanto di una stretta, e forte, della mano.
“Stai tranquillo, ora ti facciamo passare il male, ti togliamo il dolore, poi…”
Ho cercato la Poesia, Professore, l’ho cercata davvero, con passione, con rabbia, con disperazione.
Ho provato a leggerla, ho provato a scriverla.
Continuamente, sinceramente, dolorosamente.
L’ho inseguita e l’ho attesa, senza mai trovarla, senza mai incontrarla.
“ …. ti vogliono tutti bene, ti vogliamo tutti bene…”
Dicono che è questo che fa paura, agli studenti, dei loro insegnanti: di trovarsi loro di fronte essendo impreparati.
Poi, mentre ti sono sopra e addosso, chinato su di te a guardarti, tu guardi verso il basso, ai piedi della croce, e mi fai dono di tutta la Poesia che tanto a lungo ho cercato, e invano.
Tutta insieme, dentro due parole tue, in un ultimo fiato.
“Ti piango”
Dicono che è tutto Uno, e ora so che hanno ragione.
Ti prego Professore, tieni anche me tra i tuoi fogli, sugli scaffali fitti di libri che lasciano libera appena la luce della grande finestra.
Tu, sei a pagina quarantotto.
Professore.
Caro Gianni,
3° Classificato - FILIPPI ARRIGO - Pianico (Bergamo) - "Il viaggio"
IL VIAGGIO
Il viaggio inizia che è ancora notte. Il fischio di Baba sale dalla strada, secco e breve come un lampo. Aspetto il segnale in fondo a un sonno-pagliaccio, una calata di palpebre che non è riposo, solo gonfiore di occhiaie, tensione di nervi. Nel sangue mi scorre un pensiero cocciuto: sto per lasciare casa mia, il mio cielo, la mia terra. Mio, mio, mio, sono un bambino che fa capricci e vuole tutto per sé. L’Africa intera m’appartiene. Anche questa notte fredda e nera, più nera della nostra pelle nera. E le sue costellazioni di grida, che incendiano d’allarme la savana. E i ruggiti che rompono le ossa al silenzio. E i sospiri spiritati di una terra che non dorme mai. Invece no, devo lasciare tutto quanto alle mie spalle. Anche il pensiero di casa mia, del mio cielo, della mia terra. Si viaggia senza bagagli, nessuna nostalgia, nudi anche di pensieri. Mi alzo dal letto e restituisco il fischio a Baba. E’ il segnale convenuto tra noi. M’infilo uno straccio di camicia e mi tuffo nel gelato buio africano. Baba è fermo sulla via, un pensiero storto gli scava un’ombra in fronte. Forse pensa al mare, alla pianura d’acqua e sale che non ha mai visto prima.
“Mi fa paura la “grande acqua salata”. Non so nuotare. In troppi sono rimasti sul fondo, come pesci in salamoia” m’ha detto un giorno.
E’ così che Baba chiama il mare, la “grande acqua salata”. E quando lo dice fa scivolare la lingua sulle labbra, per assaggiare il sale rimasto. Mezzo sorriso d’intesa e siamo già in cammino. Si va col passo celere di chi scansa la peggiore tentazione, quella di ripensarci. Via a passi smemorati, ostinati come le jene che disputano ai leoni la preda. Via con la furia sbadata di quando si esce senza chiudere una porta. Imbocchiamo un sentiero fuori mano, poco battuto. Meglio non rischiare cattivi incontri, in giro ci sono sicari di clan nemici. Al mattino i sentieri sono schizzati di sangue, cosparsi d’ammazzati. Sotto un cielo stellato, una terra costellata di morti. La pista procede confusa, in un groviglio di erbe e cespugli. Camminiamo male, a passi incerti, un po’ ubriachi. Rami spinosi ci scorticano le gambe. Succedono inciampi, scivoloni, storte alle caviglie. Non un lamento, subito in piedi a scaricare passi nuovi. Non dobbiamo perderci. A guidarci è una lanterna di stelle. Ci sono cieli africani che fanno più luce di un mezzogiorno. Da perfetti clandestini non parliamo, tutta la forza la versiamo nelle gambe. Le parole sono eccedenza, intralcio, lusso che non possiamo permetterci. La voce resta chiusa in fondo a un corpo d’asino, che da solo regge il peso della fuga. Dopo tre ore e centomila passi, decidiamo una sosta.
“Ho portato con me del formaggio, è tutto quel che ho trovato. Ne vuoi?” chiedo con voce imbevuta di sonno. “Non ho fame, ho soltanto bisogno di riposarmi un po’ ”. M’accorgo che Baba ha una voce strana, diversa dal solito, voce senza più la sua voce dentro. E penso che quando si fugge da una terra cambia anche quella. Peccato, perché la voce di Baba è una bella voce di savana, imperativa come un galoppo di bufali, elegante come una corsa di gazzella. Camminiamo tutto il giorno. A sera, ci riuniamo a un gruppo di disperati come noi. Dormiamo sotto un cielo bollente di stelle.
Al mattino, a luce ancora addormentata, sbuca una jeep dalla boscaglia. A bordo, mitragliette a tracolla, due ceffi. Da loro, solo comandi secchi, senza spreco di voce. Ordini incarogniti da un innesco di furia prepotente.
“Presto!” gridano.
Tutti in piedi, giù a rotoloni da un sonno stropicciato. Di corsa a sistemarci sulla jeep, pigiati come bestiame.
“Presto!” gridano un’altra volta.
Si sta come in una calca di bufali prima del guado. Nessuno protesta, non c’è fiato abbastanza.
“Presto!”.
Si fugge inseguiti da parole nane, sillabe accanite come mastini. Si fugge con un “presto” alle calcagna, che non molla mai la presa. La partenza è un sussulto che scrolla di dosso l’ultimo sonno. Ci reggiamo a fatica, per non essere sbalzati fuori. Trecento chilometri di savana dura, migliaia di colpi conficcati nel tirassegno delle schiene. Incrociamo mandrie di bufali, gazzelle, scimmie. Fisso l’attenzione sulle cose, per ricalcarle uguali in fondo al cuore. Un elefante strappa rami da un’acacia. Compie gesti con forza misurata, elegante. Si muove lento, quasi sonnolento, senza lo scatto che indurisce i passi. Batte un ritmo metà animale, metà vegetale. Mi scendono in corpo tonnellate di pace. E’ l’Africa che mi bussa al cuore. Sento ronzii di cieli liquefatti, sospiri di afe roventi. Vedo fiumi lunatici come ippopotami. Stelle che si tuffano negli occhi dei coccodrilli. Voci di donne in riva al fiume. Strilli di bambini, saliti sugli alberi a far le scimmie. E un canto di cielo e terra che si prendono per mano, sul bordo musicale di un orizzonte sterminato. Ringrazio l’elefante, apparizione portafortuna di questo viaggio. Ormai è lontano, seppellito in una nuvola di polvere. Tra i passeggeri si susseguono spinte, spallate, zuccate. Dopo otto ore di scuotimenti, vediamo finalmente la costa. C’imbarchiamo. Due giorni e due notti ad affettare mare, mangiando vento salato, sudando paura e attesa. Al primo sbadiglio del terzo giorno, affiora sul mare una gobba scura. Forse Sicilia, chissà. Ci sdraio sopra il cuore. Dirigiamo la prua verso il granello di terra. Ma è un giorno di mare picchiatello, figlio di un dio beffardo, senza carità. Di lì a un’ora comincia a dare di matto, a sputarci schiuma in faccia. “Neanche il mare ci sopporta, siamo rifiuto del mondo” impreca Baba. Scoppi di onde, spallate di vento, aghi di sale negli occhi, una pioggia che fa il tiro al bersaglio sulle teste. In un saliscendi di onde così, è impossibile mantenere la rotta. Cede di schianto il motore, la barca vacilla, s’inclina, si capovolge. Tutti rovesciati in acqua, ad assaggiare il mare. Io e Baba ci reggiamo a una tavola di legno. Una donna si stringe a me, stiamo in una cordata di disperati. Mani mi graffiano i fianchi, mi bussano alla schiena. Sono uno scoglio di carne a cui aggrapparsi. Un’onda più forte trascina lontano la donna. L’ultima cosa che sento è una voce piena d’acqua. Poi un fracasso di onde che non smette più. Finalmente ci soccorre una nave di passaggio. Sono afferrato per le spalle, issato in una scialuppa. Sbatto i denti da farmi male. Di fronte a me ho la faccia fantasma di Baba. Lo guardo ma non riesco a dire niente. Svengo prima.